Quello che ci piacerebbe è imparare da te, perché crediamo che si possa crescere e maturare, o anche solo sentirsi meglio, attraverso gli altri.

Tema del mese: Nati senza telefonino

Primi anni ‘90. Conosco a una festa un ragazzo molto carino: si chiama Simone e frequenta la scuola dei miei fratelli, a loro lui non piace, a me sì; mi sembra l’inizio perfetto per una bellissima storia d’amore. Dopo esserci visti un paio di volte a casa di amici, Simone mi da appuntamento in centro, davanti a Ricordi. Era una mattina di luglio, niente scuola; il paesino dove abito non offre niente, e sono felice di andare in città. Mi ricordo che i primi cinque minuti li ho passati a guardarmi intorno, emozionata; anche i successivi cinque. Dopo il quarto d’ora di ritardo mi sentivo un po’ delusa, ma ancora talmente emozionata che ho speso 20.000 lire (ventimila lire! Come facevo ad avere quella somma con me, era stranissimo!) per due profumi (profumi!) da uomo (da uomo!) che vendeva un ex carcerato. Tipico di me fare queste spese inutili. Ma pensavo che se fossi stata gentile magari Simone sarebbe arrivato, per una sorta di giustizia karmica. Dopo mezz’ora mi sono decisa ad alzarmi dalla panchina dove ero ormai spiaggiata, volevo sgranchirmi le gambe – senza allontanarmi troppo, naturalmente. Simone aveva il mio numero di telefono di casa, ma io il suo non l’avevo. E poi non avrei potuto chiamarlo a casa, non l’avrei trovato, lui stava vedendo in centro da me. L’ho aspettato un’ora, ma forse anche un’ora e mezza; non era previsto che lui non sarebbe venuto. Quando sono dovuta tornare a casa – ero con gli zii che mi davano un passaggio – quasi volevo lasciargli un bigliettino sulla panchina: scusami se non ho aspettato abbastanza (e sì, ero malata, ma questo è un racconto sui cellulari, non sulle mie turbe psichiche). Gli zii non sapevano del mio appuntamento e io in macchina non avevo detto niente. Arrivati a casa – ero ospite da loro per qualche giorno – mio cugino mi aveva detto: finalmente sei tornata, è tutta stamattina che Simone ti cerca. Qualcosa deve essere andato storto anche in seguito, non me lo ricordo bene, ma la mia storia d’amore con Simone era finita prima ancora di cominciare. Il senso di questa storia è che se fosse successo dieci anni più tardi avrei preso il cellulare dopo i primi tre minuti per chiedere: dove sei?, e tutto sarebbe andato diversamente. Mica per forza meglio; ma chissà. Ce ne sono diversi, di episodi. Ho litigato al liceo con la mia migliore amica perché ho perso la corriera e lei mi ha aspettato un’ora al freddo, e bastava un messaggio di poche parole per evitare giorni di muso. Ancora. Altro appuntamento non rispettato, questa volta da parte mia; bastava una telefonata ma lui era fuori casa, e quando aveva chiamato me io ero in giardino a vedere la neve e non avevo sentito il telefono. Quella volta non avevo scusato la sua rabbia, era stato uno spiacevole equivoco, ma già stavo piuttosto antipatica a sua mamma, e lei aveva avuto una scusa per parlare ancora una volta male di me. E le ore al telefono del bar a chiacchierare con la Giò, 200 lire bastavano per tutto il tempo che volevo; perché da casa non potevo, dopo pochi minuti qualcuno doveva usare il telefono, oppure stavano ad ascoltare, non c’era un minimo di privacy. E le corse in bici alla cabina, telefono, lui è occupato, ti richiama tra dieci minuti, corri a casa di corsa se no perdi la telefonata. E il lucchetto al telefono, perché spendevamo troppo di bolletta. E mio fratello che aveva imparato a telefonare anche con i numeri bloccati, batteva velocissimo sulla forcella, nove volte per il nove, una per l’uno, dieci per lo zero. Cioè, non so nemmeno se si chiami forcella, e chissà se i più giovani possono immaginare un telefono con un lucchetto, ma mio fratello era davvero velocissimo e faceva i numeri anche per tutti i suoi amici che non erano capaci. La mia prima chat con un certo Mario Paret, in arte Dylan Dog; frequentava ingegneria a Torino e non so come mio fratello mi ci aveva messo in contatto nel breve periodo in cui era iscritto anche lui all’università. Andavamo al Paolotti a usare il computer. Forse ero con l’account di mio fratello, e la cosa aveva creato confusione, tanto che questo Mario aveva poi avuto dei dubbi sulla mia reale esistenza. Adesso sono così abituata ad avere con me il telefono, a ricevere e leggere le mail in diretta. Trovo su internet qualunque cosa mi serva, e se i miei amici non leggono immediatamente i miei messaggi penso che magari c’è qualcosa che non va. Noi adulti abusiamo dei cellulari tanto quanto i ragazzi, credo. Mi rendo conto che spesso lo smartphone mi prende troppo tempo, che per tante cose mi rimbambisce, che è uno strumento bellissimo e che dovrei saperlo usare meglio, ma è una enorme, indubbia comodità e non rimpiango per niente i bidoni e i litigi che adesso potrei evitare; avevo trent’anni di meno, forse questa è una cosa che rimpiango di più.

Elena

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Cervarese S. Croce, 1991. “Pronto?” “Buonasera, sono Emanuele. Vorrei parlare con Annalisa”. “E chi saresti, tu? Un amico, un compagno di scuola…?” “Un amico”. “Va bene. Ma cosa fai di cognome?” “Zeffiro. Sono qui di Cervarese. Abito in via Sacchette, incrocio con via Campanella”. “Del Fio? Mai sentito”. “Sono il nipote di Pietro Cenghiaro”. “Ah, di Pierino! Potevi dirlo subito. Come sta? Salutamelo tanto! Ti vado a chiamare Annalisa”. Prima dell’avvento del cellulare, per parlare con una persona dovevo attraversare il filtro, più o meno permeabile: il telefono fisso, a cui in genere rispondeva un genitore della persona desiderata. In più, dalla mia parte del telefono ce n’erano ben due, di genitori, che in certi casi sentivano quello che dicevo, protestavano se io cercavo di allontanarmi tirandomi la cornetta dietro la porta, diventando progressivamente insofferenti se la telefonata si prolungava oltre i dieci minuti. Non era soltanto una questione economica, ma di principio: “il telefono è un mezzo di comunicazione, non di conversazione”, sentenziava mio padre. Il mio primo cellulare, un Nokia 3310, se ben ricordo, lo acquistai nel 1998. Ero molto emozionato, per la possibilità di connettermi con qualunque amico o amica desiderassi (e che avesse il cellulare, ma di lì a poco quasi tutti ce l’avevano). Soprattutto per me, che ero tendenzialmente girovago, divenne subito prezioso. Tra l’altro, mi garantiva una privacy senza precedenti, oltre alla certezza di non rischiare di perdermi telefonate importanti: al massimo, avrei ricevuto il messaggio “ti ho cercato...”. Per contro, le tariffe erano piuttosto elevate, e inizialmente dovetti dar ragione a mio padre, limitando la durata delle conversazioni. Spesso prediligevo gli SMS, con cui mi sbizzarrivo in trovate spiritose e rime, sempre entro i 140 caratteri, sennò si pagava di più. Il primo SMS della mia vita lo inviai a un’amica di nome Marina, che aveva il cellulare già da qualche anno: il suo numero lo sapevo a memoria. Preso dall’entusiasmo di essere entrato anch’io nel prestigioso club, glielo comunicai, firmandomi però con un misterioso “Mr. Gorgeous”, che dovrebbe voler dire “Signor Figo”. Sospettosa per natura, evitò di rispondermi. Un’altra rivoluzione avvenne con gli smartphone. All’inizio, suscitavano in me fastidio e diffidenza. Un mio collega rideva come un bambino quando le sue figlie gli inviavano i primi messaggi Whatsapp con foto; io trovavo odiosa la suoneria a fischietto della Samsung, che iniziava a sentirsi ovunque. Cercavo di imitarla col mio fischio, per scherzo. Poi, su consiglio del mio amico Francesco, mi comprai il primo smartphone. Ben presto ne venni conquistato. Allora cominciai anch’io a inviare una quantità di messaggi Whatsapp, e a fare molte altre cose. Si stava aprendo un nuovo mondo, sempre più complesso. Senza rendermene conto, il mio smartphone, col tempo, iniziò a sostituire: telefono, orologio, timer, sveglia, calcolatrice, macchina fotografica, stereo, televisore, navigatore stradale, agenda, calendario, computer, torcia, dizionario di inglese, banca, ufficio postale, ... Sicuramente ho dimenticato qualcosa. Questo piccolo elettrodomestico, nel giro di qualche anno, ha portato a termine un vero e proprio colpo di stato a danno dei suoi simili, e dissimili. Un altro cambiamento radicale è stata l’abitudine a essere sempre connessi, dando per scontato che anche gli altri lo siano. Alcune persone si preoccupano se non sei reperibile al cellulare, mentre una volta si aspettava serenamente anche un’intera giornata, o più giorni. Per quanto mi riguarda, mi riconosco un po’ dipendente dal mio cellulare. Lo controllo spesso, me lo porto quasi sempre in giro. La scorsa estate mi fu molto utile quando, dopo una spettacolare caduta in mountain bike, mi ritrovai ferito, sanguinante, ammaccato e pure con una gomma bucata: in quel caso, Stefano venne a prendermi come un angelo custode, fornendomi un’efficiente e rapida assistenza tecnica: auto con portabici, disinfettante, bottiglietta d’acqua, rotolo di carta. Mi accompagnò di nascosto a casa di mia mamma, per riporre la mia bici e recuperare l’auto. Senza il cellulare, sarei comunque andato a casa sua, da Luvigliano a Montemerlo: quattro faticosi chilometri a piedi, ma sarebbe stato divertente vedere la sua faccia nel vedermi arrivare in quelle condizioni. Poco tempo dopo, fui derubato di quel provvidenziale cellulare. Questa fu un’altra esperienza intensa, che mi lasciò amareggiato, smarrito e confuso, ma anche con un insolito senso di libertà. Dopo essermi fatto ospitare da un’amica, la mattina seguente partii senza cellulare, portafoglio e documenti: solo con cinque euro in tasca, da lei gentilmente donati. Ero alla stazione di Padova. Mi sentivo insolitamente vicino a quei barboni che chiedevano l’elemosina, e in un certo senso più connesso alla terra, alla materia, alla necessità/possibilità di farmi valere per portare a termine la mia giornata. Mi sentivo solo, ma più presente, senza paura di affrontare gli altri, chiedere aiuto, fare figuracce. Comprai un biglietto dell’autobus, un cappuccino (per la brioche non mi bastavano i soldi), e gli ultimi cinquanta centesimi li regalai a una signora indiana che veniva trattata con insofferenza dagli altri attendenti di autobus. Fu curiosa la sensazione che, senza possedere più i contatti scritti nella rubrica di quel piccolo aggeggio elettronico che portavo sempre con me, era come se questi non esistessero più. Eppure, i miei amici vivevano ancora le loro vite, ignari della mia temporanea disconnessione. Mi sarebbe piaciuto, però, andarli a trovare di persona, non soltanto scrivergli. Qualche giorno di disconnessione è stato duro, ma liberatorio: una breve distillazione di ciò che è importante, scartando tanto inutile ciarpame, come l’infinità di video, foto, battute quasi divertenti, infiniti flussi di informazioni, che ci scambiamo abitualmente. In questi mesi in cui ci è proibito vedere gran parte dei nostri cari, ho molto apprezzato gli scambi di messaggi, e più ancora le telefonate e le videoconferenze via Skype o Zoom (anche se uso il PC, il mio cellulare mi fornisce la rete: è come il prezzemolo). Ovviamente, nulla potrà mai sostituire la bellezza e la ricchezza dell’incontro dal vivo tra le persone. Credo di essermene reso conto meglio, in questo periodo, e che ne farò tesoro, quando la più umana e naturale delle necessità tornerà ad essere legale.

Emanuele

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Questo articolo era da tempo che volevo scriverlo, eppure adesso non so da dove cominciare. Però, so che ci sono due cose che voglio raccontare, o meglio ricordare. Il momento in cui ho avuto il primo telefonino e il momento in cui mi sono connessa a internet per la prima volta, o meglio per la prima volta ho potuto mandare delle mail. Quanto al telefono cellulare, il primo mi è stato regalato da mio papà, il quale era un ingegnere e per questo era quello tecnologico della famiglia. Fatalità subito mi è servito in un caso di emergenza e se non lo avessi avuto - come fino a poco tempo prima - i soccorsi sarebbero arrivati tardi o non mi sarei potuta mettere in contatto con i familiari. Dopo è diventato un’arma a doppio taglio, in quanto, se da un lato è utilissimo proprio in questo tipo di situazioni, dall’altro il ‘pacchetto’ comprende una sorta di reperibilità costante, talora fastidiosa soprattutto a causa della pretesa degli altri di essere sempre tenuto a rispondere e di doverli sempre chiamare. Certo, consideriamo che, almeno nei primi tempi, si poteva solo telefonare, mentre adesso è come avere un computer tascabile. Ringrazio innanzitutto per l’invenzione degli sms. Quelli si che mi piacciono proprio. Poi mi ricordo la bellissima icona a forma di bustina con uno dei lati leggermente aperto nel contorno che aveva il mio primo telefonino (di una marca che non aveva nessuno). Ho sempre avuto una predilezione per la scrittura e, di contro, ho sempre avuto difficoltà a parlare con le persone o fare i discorsi. Quindi, il tramite scritto, questo termine intermedio che mi consente anche di riflettere di più e meglio su ciò che dico, sulle risposte che posso dare, lo prediligo. Ho potuto comunicare di più, esprimere meglio i miei sentimenti ed emozioni, con questi “messaggini”, che ora con i social sono anche messaggi di lunghezza illimitata (mentre inizialmente bisognava stare attenti al numero dei caratteri utilizzati) e a cui si possono spedire foto o allegati (documenti). Adesso il telefono è un micro computer, superata l’era del palmare, si è subito passati allo smart-phone. E già, ora siamo arrivati anche allo smart-working. Un’altra svolta epocale è stata l’era di internet. Quello che soprattutto mi ha interessato da subito è stata la possibilità di mandare le email. Quella volta sono stata io a chiedere di poter comprare un modem. Oggi neanche serve neanche più, che poi…qualcuno ricorda il rumore tipico di quando si connetteva a internet? Per me è stato bellissimo poter scrivere messaggi lunghi quanto volevo perché era come mandare una lettera, solo che basta digitare al computer e in un attimo arriva al destinatario. Poi l’altra invenzione incredibile è stata facebook perché solo grazie a quella ho potuto restare in contatto anche con tutte quelle persone di cui non hai mai avuto il numero di telefono o l’indirizzo e permette, anche a distanza di tempo, di potersi contattare e conoscere anche meglio alcune persone con le quali non hai un rapporto frequente. L’ultimo ricordo va all’epoca, ormai superata del “ti faccio uno squillo” adesso con gli abbonamenti pre-pagati per migliaia di ore di telefonata non serve più controllarsi o limitarsi e si può direttamente sprecare una telefonata in più.

Giulia

Dedicato a...

Dedicato a quelli che credono nella forza delle parole, a quelli che pensano che anche una parola o un piccolo gesto possono cambiare il  mondo,  a quelli che non si arrendono, a quelli che hanno una passione, a quelli che ci mettono il cuore, a quelli che sanno andare oltre,a  quelli che si aprono agli altri, a quelli che sono generosi, a quelli che hanno in cuore un sogno, a quelli che sanno perdonare o hanno perdonato almeno una volta, a quelli che sbagliano e poi sanno ricominciare, a quelli che imparano dai loro errori, a quelli che ci credono fino in fondo, a quelli che hanno pagato un prezzo per la loro onestà, a quelli che credono nell’amicizia
a quelli che si impegnano nelle cose, a quelli che sono capaci di condivisione, a quelli che sanno faticare per raggiungere i risultati, a quelli che sono capaci di amare, a quelli che sanno far fruttare i loro talenti, a quelli che aiutano chi è in difficoltà, a quelli che danno consigli disinteressati, a quelli che donano un sorriso, a quelli che sanno infondere coraggio, a quelli che sono perseveranti, a quelli che costruiscono piuttosto che distruggere, a quelli che fanno tanto e parlano poco, a quelli che non si aspettano nulla in cambio, a quelli che ti danno tutto e non parliamo di soldi, a quelli che continuano a cercare, a quelli che sanno rinunciare, a quelli che devono fare delle scelte, a quelli che lavorano gratis o sono sottopagati, a quelli che non fanno il lavoro per cui hanno studiato, a quelli che arrivano sempre secondi,
a quelli che si commuovono, a quelli che sono stati fraintesi, a quelli che conservano la capacità di stupirsi, a quelli che si indignano, a quelli che non hanno avuto una seconda occasione, a quelli che ce l'hanno fatta, a quelli che vanno controcorrente, a quelli che sono stati traditi, a quelli che hanno perso quelli che credevano ‘amici', a quelli che non sono stati apprezzati, a quelli che hanno avuto soddisfazione, a quelli che ci mettono l'anima, a quelli che hanno tante idee, a quelli che hanno una fede, a quelli che hanno dei valori e rispettano i valori degli altri, a quelli che hanno superato il senso del dovere almeno una volta, a quelli che continuano a sperare, a quelli che continuano a sognare, a quelli che hanno un 'cuore d'oro', a quelli che sono dolci, a quelli che sono generosi, a quelli che lavorano anche senza avere in cambio nulla di economicamente rilevante, a quelli che affrontano le loro paure,  a quelli che riescono a superare la propria timidezza, a quelli che sanno ascoltare, a  quelli che parlano poco, ma al momento giusto hanno sempre qualcosa da dire....
a quelli che non ce  l'hanno fatta, a quelli che ce l'hanno messa tutta, ma non è stato abbastanza, a quelli che sono stati messi da parte, a quelli che si sono sacrificati, a quelli che non hanno visto riconosciuti i loro meriti, a quelli che ...un raccomandato gli è passato davanti, alle brave persone, a quelli che mettono umanità nei rapporti con le persone e nel lavoro, a quelli che almeno una volta hanno fatto qualcosa che andava al di la del loro dovere, a quelli che si dedicano agli altri.