L’ASSENZA
Il cellulare in mano, il dito a sfiorare il tasto M.
So che se lo premo, il primo numero a comparire sarà il tuo.
Dieci anni ed è ancora lì. 
La tua è un’assenza che non riesco a colmare, perché tu sei presenza, sempre.
Ci sono giorni in cui cerco di scacciarti, vorrei dimenticare, per sentirmi meno sola.
Vorrei riuscire a venirti a trovare, a portarti dei tulipani, bianchi come piacciono a te.
Vorrei andare in giro per negozi senza farmi prendere dalla malinconia.
Mi è passata la voglia, sai? 
Lo so che non mi credi, ma ti giuro che è così. Non è più divertente farlo da sola. 
“Prova questo, è il tuo colore.” “Il cardigan blu non ti sta bene, prendi quello rosso.” “Metti un po’ di allegria in quell’armadio tutto nero”. Continuavi fino a quando ti imploravo di fermarci.
Riguardo il cellulare, il tuo nome è lì, vorrei cancellarlo, davvero. Vorrei avere il coraggio di farlo. È semplice, basta un clic.
Una volta l’ho fatto, ero così arrabbiata con te, e allora ho premuto il tasto.
Non c’eri più, se cercavo sotto la M usciva Maria.
Sono rimasta lì sprofondata nel divano, aspettando la serenità che non arrivava. E più aspettavo più mi saliva l’ansia. Il respiro si rifiutava di uscire, come se tutto il mio corpo si fosse ammutinato.
Ho fatto quello che dovevo, ho cercato di ricordare il tuo numero, io che con la memoria non ho un buon rapporto. Ho strizzato gli occhi, ho implorato la mia mente di collaborare, e piano piano, un numero alla volta l’ho ricostruito.
E sei tornata.
E il mio respiro ha iniziato a fluire regolare.
Ed è tornata la voglia di premere quel tasto per risentire la tua voce. Come facevo tutte le mattina. Un saluto, niente di che, era il nostro rituale. Mio e tuo.
Ho capito che ho bisogno della tua assenza, non riesco a farne a meno. Perché meglio quella del nulla.
A volte mi sembra di non ricordare bene il tuo timbro di voce, e ho paura di perderti di nuovo e mi rammarico di non averti mai insegnato a registrare un messaggio per poterti riascoltare, per illudermi, anche solo un minuto, di averti qui con me.
Sei sempre stata bellissima, tutto ciò che avrei voluto essere io. C'è stato un periodo in cui mi infastidivano tutti i complimenti che ti venivano rivolti, io, così goffa e sciatta, vicino a te lo diventavo ancora di più. Cercavo di rintanarmi nella mia adolescenza arrabbiata, battagliera contro un mondo che mi faceva sentire così sbagliata. Rinnegavo quanto cercavi di insegnarmi, pronta alla guerra contro tutto e tutti. 
Così forte eppure così fragile. 
Poche persone guardavano oltre il muro che avevo innalzato. Tu ci riuscivi sempre.
Non mi attaccavi mai, mi assecondavi quando ciò era possibile, mi guidavi quando te lo permettevo. 
Non sono stata una persona facile, mai. Me ne rendo conto ora che il tempo ha smussato le mie asperità e le mie fragilità, colpi di lima che hanno lasciato cicatrici profonde che ho imparato a rimarginare piano piano. 
Non l’avevo capito allora, credevo solo che tu volessi farmi diventare uguale a te, e io, che sapevo non sarebbe stato mai possibile, mi allontanavo. 
Io una margherita fra tante, tu la rosa del giardino.
Tu però eri lì, sembravi sempre passare per caso, mai ingombrante, presente sempre, anche nelle tue assenze.
Avrei voluto vedessi crescere i miei figli, 
Sai, ora il grande è ghiotto di cioccolata e dolci di ogni genere.
Ti ricordi quante volte hai cercato di farglieli mangiare? 
Insistevi testarda. A te, golosa come nessun altro, non sembrava possibile che ci fosse qualcuno al mondo in grado di rifiutarli. 
Beh, credimi, ora saresti orgogliosa di lui.
È cresciuto tanto, oramai è un uomo, ma cerca ancora di farsi piccolo piccolo per mettersi sulla mia pancia, come faceva da bambino. Non è facile gestirlo, lo ammetto, ma ce la stiamo mettendo tutta. Ha superato un sacco di ostacoli ed è sereno, non importa la nostra fatica, ci bastano i suoi sorrisi, e le parole che ci dice con quegli occhi che parlano per lui.
Il piccolo invece non ha avuto la fortuna di conoscerti bene, ma ho cercato di costruirgli dei ricordi che fossero solo suoi, perché non si sentisse escluso. Un piccolo castello fatto di gesti semplici, come quando lo mettevi seduto davanti a te sul tavolo, perché non avevi più la forza per tenerlo in braccio, e gli lasciavi succhiare gli spicchi delle clementine. Ancora adesso sono le sue preferite, dice che gli ricordano te. L’hai fatto fino al tuo ultimo giorno, e di questo te ne sarò sempre grata. Sente la tua mancanza, lui che aveva poco più di un anno quando ci hai lasciato, e tutte le domeniche mattina si fa accompagnare da te. All’inizio me lo ha tenuto segreto, così piccolo aveva capito che io non ero in grado di farlo. E in quel momento l’ho amato ancora di più.
In molti ti reputavano egoista: mille interessi, tante amicizie, tante assenze. Non avevano capito nulla. Tu ci hai insegnato a combattere con le nostre forze, ad essere responsabili delle nostre azioni, ad essere curiosi, a sentirci cittadini del mondo. L’hai fatto a modo tuo, senza pressioni, con i fatti più che con le parole. E quello che gli altri traducevano come leggerezza, per noi erano solide basi. A modo avevi cercato di abituarci all’assenza, avevi cercato di renderci indipendenti, rimanendo sempre un passo indietro, come se già sapessi.
È un’ingiustizia quello che ti è capitato, che ci è capitato. L’ho gridato arrabbiata, arrivando ad odiare chi invece ce l’aveva fatta, gente che non meritava, che non aveva la tua joie de vivre. Ho odiato anche te che mi hai lasciata quando non ero pronta, nessuno di noi era pronto. Poi la vita continua e pretende di essere considerata, lo impone. E ho odiato anche lei. 
Odio e amore, rabbia e dolore, respiri e apnee, in fondo noi siamo questo, me lo hai insegnato tu.
Sono passati dieci anni, mamma, e anche stamattina, ho preso il telefono per chiamarti.
Era solo per un saluto, sarà per la prossima volta.
Cristina Grazioli 
 
             
  




